Domenica 8 marzo 2009.
Mia moglie, attenta nutrizionista e salutista, decide la colazione più appropriata che, fatte salve le proteine, non si discosta molto da una colazione classica. Memore del freddo patito alla Verona-Bosco, decido per il pantalone a ¾ e la maglia a manica lunga. Ogni dettaglio è per me un punto di domanda. Ma dai, accidenti, non sarà tanto diverso dalle granfondo che ho fatto in bici … sì, alla fin fine è quasi vero.
Arrivo con congruo anticipo alla partenza e mi preparo. Non sento assolutamente la gara, cerco facce conosciute trovandone qualcuna. Mi preoccupo di assumere un’aria da veterano e mi dedico al riscaldamento e allo stretching. Pipì! Devo fare la pipì prima di partire. Mi avvio verso i bagni dove c’è tutto il mondo. Ci sono anche un paio di pacers dei quali conosco l’esistenza grazie ad un figurone fatto un po’ di tempo prima con Massimo che, raccontandomi della sua corsa a Venezia, mi ha nominato i pace maker. VacciBu, esclamo io, non pensavo che dei portatori di pacemaker (inteso come stimolatore elettrico del ritmo cardiaco) riuscissero a chiudere una maratona in 2 ore e 50. Et voila!
Mi sforzo e chiedo informazioni sul come funzionano i pacers. Ricevo una risposta alquanto logica e scontata che blocca sul nascere la mia domanda successiva. Si esce, ci si mette nelle griglie e si rimane a rimirare i Garmin altrui aspettando la partenza che, personalmente, non distinguo. La folla mi trasporta sotto lo striscione e lì, da quel momento, comincio a correre come un matto per guadagnarmi la scia dei palloncini delle 3 ore e mezza. Verona è la mia città, conosco il percorso alla perfezione, ogni curva, ogni fondo, dall’asfalto al porfido. In quel preciso momento Piazza Brà e l’Arena non m’impressionano più di tanto ma mi viene la pelle d’oca sulla nuca quando passo in mezzo al pubblico che mi applaude e mi incita. Non mi era mai successo. Al 2° km sono invogliato a spingere di più, sento che potrei allungare senza problemi, mi dà tanto fastidio la folla, il dover stare attento a non inciampare nelle gambe altrui. Comincio a pensare che, se va avanti così, rimango coperto fino al 30° e poi scappo. Usciamo dal centro storico e la strada si allarga.
Al controllo del 10° Km passo con un 48’48’’. Sorpassato il relativo ristoro (inavvicinabile) prendo una bottiglia offertami dal vicino e, come sempre mi succede, fatico non poco a bere. Mi conosco, succede anche in bici: non riesco a coordinare il deglutire con l’attività fisica, m’incasino perfino nel soffiarmi il naso. Dovrei fermarmi, bere e riprendere a correre ma non ci penso proprio, preferisco piccoli sorsi mal gestiti. Rientriamo verso la città correndo a fianco dell’Adige. Sono km che mi piacciono molto, spazi ampi, le gambe girano e mi ritrovo concentrato sulle sensazioni che mi trasmette la corsa.
Accidenti: ci manca poco che m’incasino e imbocco il bivio della mezza (è segnalato male oppure sono io che non ho dimestichezza?). No, non esiste, mi sento bene e vado avanti. Adesso la corsa è decisamente più vivibile, non c’è più tutto quell’affollamento e si gestiscono meglio le distanze. La mia gara continua egregiamente, i palloncini delle 3:30:00 stampati in faccia, taglio il traguardo della mezza in 1:44:59. Il cervello si ferma a pensare che un’ora e 44 per poco più di 21 km equivale a poco meno di 5’ al km. Ho dei margini sensibili rispetto i tempi che segno in allenamento. Posso far di meglio ma preferisco non bruciarmi. Rimango sempre dell’idea di star coperto fino al 30° per poi scappare. Eh, dopo tutto io l’ho già detto (e qui lo ribadisco) che HO furbo.
La seconda parte di gara ha la prerogativa di passare in ambienti di una monotonia enorme. Il traffico automobilistico aumenta sensibilmente. Mangio una barretta presa al ristoro dei 25. Mi ritrovo a correre incurvato; alzo la testa e raddrizzo le spalle. Realizzo che la distanza tra un cartello chilometrico e il successivo è notevolmente aumentata. Possibile? Il respiro è regolare, le gambe corrono abbastanza bene ma non sono sciolte come i km precedenti. La falcata non ha più la solita ampiezza e devo sopperire con una maggiore frequenza. Sono concentratissimo su ogni piccolo segnale che il mio corpo m’invia e cerco d’interpretarlo al meglio. Mi ascolto. So che quando incomincio ad ascoltarmi è perché mi manca poco alla riserva. Ogni ristoro è occasione per prendere qualcosa, qualunque cosa che presumo abbia la prerogativa di darmi forza ed energia. Apprezzo molto le arance tagliate a spicchi.
Il passaggio al 30° km ferma il cronometro a 2:29:01 con una media sempre poco sotto ai 5’ al km. I miei pacers sono tre macchine da guerra ma è ora di lasciarli. Devo scappare. Io HO furbo. Aumento all’inizio di un enorme rettilineo. Un rettilineo lungo. Lunghissimo. Sono 3 km e mezzo di statale a 4 corsie dove si corre con le macchine che ti sfrecciano a fianco e dove, appena alzi la testa vedi, laggiù in fondo, la curva a gomito che segna la fine dello stradone. La vedi, è sempre la in fondo, io continuo a correre ma lei non arriva mai. Cerco di distrarmi (per quanto ci si può distrarre in Viale Venezia). Penso alla strada che manca, la corro mentalmente.
Sono al km 36 e mi ritrovo solo, supero tanta gente che va al passo. È una situazione che, invece di spronarmi, ha l’effetto opposto. IL MURO C’è, ESISTE. Una signora di passaggio mi batte le mani incoraggiandomi ed io faccio il maleducato e non alzo nemmeno gli occhi da quel punto indefinito dove vedi solamente le punte delle tue scarpe che, alternandosi, compaiono con un ritmo che ti ostini a mantenere costante. Continuo a correre ma ho bisogno di bere, non tanto per la sete ma perché devo pulirmi al bocca. Sono nel quartiere dove sono nato e cresciuto. Conosco una fontanella poco visibile che rimane sul percorso, vicino al canoa club, mi fermo (!), mi ci attacco e bevo per la prima volta in maniera giusta, a bocca piena. Due dei tre pacers mi raggiungono. Ne abbiamo perso uno. Mi riaccodo e subito mi sento meglio. Siamo rimasti solamente in due a far compagnia ai palloncini. Si accorgono subito della mia crisi e mi mettono in mezzo, mi parlano, mi consigliano, mi fanno spostare lo sguardo sul culo delle ragazze che incrociamo. Continuo a correre anche quando la strada s’impenna su per il cavalcavia del 41° km e, in discesa, ricevo la benedizione dei due angeli custodi che mi incitano all’ultimo sforzo. Mi dicono che devo aumentare, devo staccarli e non farmi vedere al traguardo scortato da due pacers. Non è bello.
Volo, le gambe aumentano falcata e frequenza, vanno da sole, non si fermano (anche perché, se lo facessero adesso, cadrei atterra).
QuarantadueChilometriCentonovantacinqueMetri
TreOreVentottoMinutiVentunoSecondi